mercoledì 13 novembre 2013

La politica di distruzione europea

In un post di ieri abbiamo visto quali siano realmente il tipo di persone che indirizzano le scelte politiche, economiche e sociali; abbiamo visto chi sono e come si raggruppano.

Abbiamo capito che dispongono di una rete di collaboratori vastissima, e che hanno la capacità di selezionare e posizionare i loro uomini nei punti chiave. Hanno risorse ingentissime, e le usano per esercitare la loro pressione sul potere esecutivo di ogni Nazione.

Prendete i Commissari Europei. Vi risulta che vengano eletti in normali consultazioni elettorali? Avete l'impressione che vengano selezionati tecnici e cattedratici ai massimi livelli scientifici? O che determinati ruoli siano assegnati a politici di acclarata fama ed esposizione interna?

Niente di tutto ciò, ovviamente. I nostri massimi esponenti del Governo Europeo sono personaggi del calibro di Herman Van Rompuy ed Olli Rehn...Si tratta di gente che, fino alla loro ascesa in ambito europeo, stentava ad essere conosciuta perfino nei loro paesi d'origine.

 

Per arrivare ad occupare quelle posizioni (Presidente del Consiglio Europeo e Commissario europeo agli affari economici e monetari) però, dovevano essere conosciuti negli ambienti di cui sopra...Ed in quelle posizioni sono chiamati a favorire l'agenda di organismi come l'Ert.

E cosa succede quando una Nazione mette in campo delle politiche economiche e fiscali che deviano dalla dottrina imposta dalla Commissione Ue? Succede che si mettono in moto tutti i meccanismi e leve di persuasione a disposizione.

Prendiamo oggi il caso della Francia. E lo facciamo riportando un interessantissimo articolo di Paul Krugman, economista premio Nobel di massimo livello; uno al cui confronto Olli Rehn è meno di uno studentello da superiori.

In questo articolo uscito sul NY Times, Krugman ci spiega perché sulle politiche fiscali francesi si è abbattuta la critica della Commissione, delle Agenzie di Rating e degli opinion makers finanziari.

In buona sostanza, il peccato di Hollande è quello di aver scelto di non "attaccare" con l'austerity il Welfare, il sistema sanitario e quello scolastico. Ha scelto di provare a tenere in ordine i conti ed i parametri europei senza impattare troppo sulle classi sociali più deboli. Insomma, niente deregulation e smantellamento delle reti di sicurezza sociali.

Qui da noi invece, i Governi Monti e Letta non hanno mai messo in discussione la dottrina ed i diktat europei, tipo quello che ci venne recapitato nel 2011 sotto forma di lettera al Governo da parte della Bce, a firma Draghi e Trichet (ne parlammo qui). Infatti oggi abbiamo crescita negativa, deflazione, boom della disoccupazione, con quella giovanile che ha superato il 40%. Il meccanismo è quello risaputo, con la pressione fiscale che ammazza i consumi, che a loro volta sotterrano commercio, industria ed agricoltura. E prepara poi il terreno alla svendita industriale del Paese.

Il modello da seguire deve essere quello greco: tagli, tagli e tagli. E laddove non si registrassero miglioramenti...ancora altri tagli. Leggiamo allora Krugman...

 







Venerdì scorso l'agenzia di rating Standard & Poor's ha declassato la Francia. La notizia è arrivata in prima pagina sui giornali e molti articoli indicano che la Francia è in crisi. Ma i mercati non hanno fatto una piega: gli interessi passivi francesi, molto vicini al loro minimo storico, non si sono quasi mossi. Ma allora, che cosa sta succedendo? La risposta è che la decisione di S&P deve essere contestualizzata nell'ambito della più vasta politica di austerità fiscale. E mi riferisco a quella politica, non a quella economica.

Perché il complotto contro la Francia - può sembrare che io sia un po' faceto, ma in verità c'è molta gente che cerca di screditare quel Paese - è un'evidente dimostrazione del fatto che in Europa, come in America, i predicozzi fiscali non si preoccupano affatto dei deficit. Anzi, sfruttano i timori di indebitamento per portare avanti un'agenda ideologica. E la Francia, che si rifiuta di stare al gioco, è diventata il bersaglio di un'incessante propaganda negativa.

Lasciate che vi dia un'idea di ciò di cui sto parlando. Un anno fa la rivista The Economist dichiarò che la Francia era «la bomba a orologeria nel cuore dell'Europa», con problemi che al confronto avrebbero reso trascurabili quelli di Grecia, Spagna, Portogallo e Italia. Nel gennaio 2013, il direttore generale senior di Cnn Money ha dichiarato «in caduta libera» la Francia, «nazione che si avvia verso una Bastiglia economica». Sentimenti assai simili a questi sono reperibili in tutte le newsletter di economia.

Tenuto conto di questo livello del discorso, uno si accosta ai dati riguardanti la Francia aspettandosi il peggio, per scoprire invece che si tratta sì di un Paese in difficoltà economica - e quale Paese non si trova in tale condizione? - , ma che in linea generale se la passa bene o forse addirittura meglio della maggior parte dei suoi vicini, con l'unica notoria grande eccezione della Germania.

Di recente la crescita francese è stata apatica, ma molto superiore, per esempio, a quella dei Paesi Bassi che hanno tuttora un rating da tripla A. Secondo le stime standard, una decina di anni fa i lavoratori francesi erano in effetti un po' più produttivi delle loro controparti tedesche. E indovinate un po'? Lo sono ancora.

Nel frattempo, le prospettive fiscali della Francia appaiono chiaramente non preoccupanti. Il deficit di bilancio è sceso bruscamente e di molto dal 2010, e il Fondo monetario internazionale si aspetta un rapporto debito/Pil più o meno stabile per il prossimo quinquennio.

Che dire della zavorra sul lungo periodo rappresentata da una popolazione sempre più anziana? In Francia il problema c'è, come del resto c'è in tutte le nazioni benestanti. Ma la Francia ha un tasso di natalità superiore a quello della maggioranza dei Paesi europei, in parte grazie ai programmi statali che incoraggiano le nascite e semplificano la vita alle madri lavoratrici, al punto che le proiezioni demografiche sono di gran lunga migliori rispetto a quelle dei Paesi vicini, Germania inclusa.

Intanto il sistema sanitario francese, meritevole di attenzione perché assicura prestazioni di alta qualità a spesa contenute, costituirà nell'immediato futuro un notevole vantaggio fiscale. Attenendoci alle sole cifre, pertanto, è difficile capire perché la Francia si meriti cotanto biasimo. Ma allora, ancora una volta, che cosa sta succedendo?

Ecco un primo indizio: due mesi fa Olli Rehn, commissario europeo per le questioni economiche e monetarie - nonché uno dei principali promotori delle rigide politiche di austerità - ha disapprovato la politica fiscale francese, apparentemente esemplare. Perché? Perché essa si basava su aumenti fiscali più che su tagli alle spese - e gli aumenti fiscali improvvisi, ha dichiarato, «annienterebbero la crescita e frenerebbero la creazione di posti di lavoro».

In altre parole, non conta ciò che ho detto in tema di disciplina fiscale: si suppone che voi dobbiate smantellare le reti di sicurezza. La spiegazione che S&P ha dato del declassamento del rating della Francia, anche se formulato meno chiaramente, in pratica afferma esattamente la stessa cosa: la Francia è stata declassata perché «è improbabile che l'attuale approccio del governo francese alle riforme di bilancio e alle riforme strutturali del regime tributario, così come ai prodotti, ai servizi e al mercato del lavoro, migliori sostanzialmente le prospettive a medio termine della Francia». E quindi, ancora una volta: lasciamo perdere le cifre di bilancio, dove sono i tagli alle tasse e la deregulation?

Si potrebbe pensare che Rehn e S&P abbiano basato le loro domande su prove circostanziate che i tagli alla spesa sono di fatto meglio per l'economia degli aumenti delle tasse. Ma così non è. Anzi, la ricerca del Fmi indica che quando in una recessione si cerca di ridurre il deficit, vale esattamente il contrario: le fluttuazioni temporanee e repentine delle tasse arrecano molti meno danni dei tagli alla spesa.

A proposito: quando qualcuno inizia a decantare le meraviglie della "riforma strutturale", prendete le sue parole cum grano salis. Per lo più questa definizione è un'espressione in codice per indicare la deregulation, e le prove relative alle virtù della deregulation sono decisamente contraddittorie. Come ricorderete, l'Irlanda fu elogiata per le sue riforme strutturali varate negli anni Novanta e Duemila, e nel 2006 l'attuale cancelliere dello scacchiere britannico, George Osborne, definì quello irlandese un «fulgido esempio». Ma come è andata a finire?

Forse tutto ciò suonerà familiare alle orecchie dei lettori americani e così è giusto che sia. I predicozzi fiscali degli Stati Uniti si rivelano, quasi sempre e invariabilmente, maggiormente interessati a tagliare Medicare e la Social Security che a tagliare realmente i deficit. E adesso i sostenitori europei dell'austerity si rivelano per lo più in linea con loro. La Francia ha commesso l'errore imperdonabile di essere fiscalmente responsabile, senza infliggere sofferenze ai poveri e ai più sventurati. E quindi deve essere punita.

 

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